Questo mese vi voglio raccontare una ricerca molto importante che spiega bene chi siamo e a che punto siamo. Si chiama “Le parole contano” ed è stata condotta da Quindo, prima agenzia SEO in Italia completamente online e che per lavoro indaga come le persone cercano i prodotti e i servizi dei loro clienti. Si chiedono spesso, mi confida Laura Venturini fondatrice e CEO di Quindo, quale impatto potrebbe avere il loro lavoro sulle persone. Ed è così che è nata questa ricerca: durante un brainstorming virtuale in cui hanno cercato “outfit colloquio di lavoro”. I risultati di Google immagini le hanno lasciate perplesse (spoiler: sono al 90% foto di donne), ma con la voglia di interrogarsi ancora su come venissero incluse le donne nel contesto professionale.
Lo studio ha messo in correlazione le parole ricercate dagli italiani su Google e i bias cognitivi, ovvero delle distorsioni che tutti e tutte noi mettiamo in atto quando pensiamo e quando ragioniamo. La ricerca è focalizzata soprattutto in ambito di genere e a livello lavorativo. E indovinate un po’? È venuto fuori che ragioniamo per stereotipi sessisti. Ma è emerso anche che le cose stanno cambiando, lentamente, ma qualcosa si muove.
Ce lo dice la scienza, ce lo dice il marketing e ce lo dicono le ricerche, non si può più negare che le parole siano importanti, che rivelino e plasmino i nostri pensieri. Oggi diamo una risposta concreta a chi (ancora 🙄) dice che ci sono cose più importati delle parole: diamo dei dati basati sull’intelligenza artificiale.
L’intervista a Laura Venturini
Ho intervistato Laura Venturini e invece di parafrasare il contenuto emerso ho preferito lasciare l’intervista in forma integrale (domanda-risposta), in pieno clima estivo da sotto l’ombrellone. Pronte e pronti?
1 – Che correlazione c’è, secondo te, tra i nostri bias culturali e le ricerche che facciamo su Google? Siamo davvero così trasparenti per i motori di ricerca?
C’è una correlazione diretta. Le ricerche su Google riflettono le nostre esperienze, credenze e pregiudizi, che sono influenzati dal contesto culturale in cui viviamo. Pertanto, i risultati di ricerca possono essere distorti e riflettere i bias culturali esistenti, amplificando gli stereotipi e limitando la diversità di punti di vista rappresentati. È importante essere consapevoli di questi bias e cercare di superarli per ottenere una visione più equilibrata e inclusiva delle informazioni che cerchiamo.
Le persone cercano come parlano. E ricordiamoci che le parole costruiscono i pensieri.
2 – Si parla di parità di genere e quindi anche di sesso: penso ai risultati che sono venuti fuori con le parole infermiera, massaggiatrice vs massaggiatore e operaia.
Le parole più cercate in abbinamento al termine “infermiera” rientrano nell’ambito della pornografia. L”infermiera sexy” è cercata migliaia di volte in più rispetto alle informazioni sullo stipendio della professione. Considerando che la professione di infermiere è stata aperta al personale maschile solo dal 1971 (legge n. 124) è davvero curioso. Ma non è l’unico caso in cui la professione svolta da una donna è associata al mondo del porno: operaia e massaggiatrice.
3 – Si può dire che alcuni bias non ragionano in base al numero di professionisti o professioniste nel mondo del lavoro? Penso soprattutto alla ricerca “ginecologo vs ginecologa” in un campo in cui sono più numerose le donne, ma la ricerca su Google è al maschile.
Quando si pensa a professionalità legate alla salute, le ricerche ci dicono che pensiamo al “maschile”. I professionisti della salute nell’immaginario della maggior parte delle persone sono maschi. Alcune ricerche sono eclatanti.
La “ginecologa” è cercata solo nel 17% dei casi, eppure in Italia ci sono 13.899 specialisti in ginecologia, il 42% sono donne, nella fascia di età inferiore ai 50 anni, le dottoresse sono oltre il 60%”.
Una situazione diversa ma altrettanto interessante è la ricerca dello o della specialista in Ostetricia dove i dati ci dicono che “ostetrico”, al maschile, conta circa 300 ricerche al mese mentre “ostetrica”, al femminile 14.000 ricerche mese.
Se digiti “ostetrico” su Google, la prima “suggestione” del motore di ricerca è “uomo”. Al momento è necessario specificare che stiamo ricercando una figura specializzata in ostetricia di sesso maschile.
4- Outfit per colloquio di lavoro, bella presenza: ancora sessualizzazione o più cercare di apparire “serie e brave ragazze”?
Quando si sceglie un outfit per un colloquio di lavoro, vorremmo apparire professionali e adatti all’ambiente lavorativo. L’obiettivo principale dovrebbe essere trasmettere serietà, competenza e sicurezza. Dalle ricerche su Google, sembra però che la questione se la pongano solo le donne. Cercando su Google consigli per il ‘look da colloquio di lavoro’ il 95% delle immagini rappresenta una donna. Come se solo le donne dovessero preoccuparsi di come si vestono in contesti professionali.
A mio avviso c’è un (grave) problema di sessualizzazione, ci si dovrebbe concentrare sulle competenze e sulle capacità lavorative, non sul genere dei candidati. Eppure ci sono annunci di lavoro in cui è richiesta la “bella presenza” e si da per scontato che a candidarsi saranno solo donne.
5 – C’è qualcosa di curioso che avete scoperto ma non avete pubblicato nella ricerca?
Più che una scoperta è stata una conferma: le ricerche sulle professioni sanitarie sono quasi esclusivamente al maschile. Il “gastroenterologo” è cercato 11.000 volte contro le 350 della “gastroenterola”, il “chirurgo” 3.100 volte mentre la “chirurga” solo 200, lo “psicologo” 23.000 ricerche contro le 4.500 per la “psicologa”. Il dato è curioso perché consultando una pubblicazione del Ministero della Sanità del 2021 – quindi ormai datata – sul personale dipendente a tempo indeterminato del SSN – le donne medico erano già il 49,9% del totale, le psicologhe il 78,8%.
Le ricerche su Google ci raccontano che le donne medico, nell’immaginario collettivo, hanno sempre connotazioni legate alla sfera “sexy”.
6 – Nonostante questi dati voi di Quindo restate positive: può l’Intelligenza Artificiale rappresentare una speranza per la parità di genere perché più rapida nei cambiamenti rispetto ai bias mentali?
L’intelligenza artificiale può essere programmata per prendere decisioni basate su criteri oggettivi e neutrali, riducendo così l’impatto dei bias di genere. Ma è importante sottolineare che l’intelligenza artificiale è solo uno strumento e il suo utilizzo dipende dalla qualità dei dati e degli algoritmi utilizzati. È fondamentale garantire una progettazione e una formazione etiche dell’intelligenza artificiale per evitare la riproduzione di discriminazioni di genere o altre forme di pregiudizio (anche per questo ci vorrebbe formazione sulle tematiche di genere per chi scrive il codice).