Psicologa | Giornalista | Docente Università | Scrittrice

La newsletter che parla di parole, pensieri e cervelli narrativi

di Marta Pettolino Valfrè

I poveri non sanno pensare da ricchi

Che ne facciamo delle parole?

Lo spunto per parlare dell’importanza delle parole questa volta me l’hanno dato Ambra, nel suo discorso del primo maggio, e un’avvocata-scrittrice incontrata al Salone del libro, di cui ho scelto di non fare il nome.

La prima ha sollevato una questione importante e lo dimostra anche l’impatto che ha avuto sui media i giorni seguenti. Il bello e il brutto è che le parole sono ricchezza comunedi chi le studia e di chi le usa anche senza studiarne l’importanza. Lo scivolone di Ambra sta proprio in questo: dire cose senza informazione e consegnare armi in mano ai detrattori dell’importanza delle professioni al femminile, che adesso avranno una voce in più alla lista: avete una presidente donna, avete una segretaria del Pd donna, dovete essere contente e non tutte le donne la pensano come voi. Sì, la pensa diversamente chi non conosce la magia che creano le parole nella nostra mente, personale e collettiva.

Cosa ha detto Ambra

“Avvocata, ingegnera, architetta. Tutte queste vocali in fondo alle parole sono, saranno armi di distrazione di massa? Ci fanno perdere di vista i fatti e i fatti sono che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto di meno di un uomo che copre la stessa posizione.”
E ancora:
“Che ne facciamo delle parole? Voglio proporre uno scambio: riprendetevi le vocali in fondo alle parole, ma ridateci il 20% di retribuzione. Pagate e mettete le donne in condizione di lavorare.”

E da cosa saremmo distratte?

LE PAROLE SONO FATTI, perché le parole che usiamo attivano circuiti neurali che ci permettono di pensare e di fare, e a pensieri diversi corrispondono comportamenti diversi. Cambiare i pensieri sociali permette di cambiare sul lungo termine e raggiungere la parità non solo per una discriminazione alla volta (stipendi, sessualizzazione, ruoli professionali, ecc.) ma una parità pragmatica a tutto tondo.

Il linguaggio ha un impatto enorme sia a livello psicologico sia a livello sociale perché il nostro cervello funziona anche per nodi associativi, cioè una parola ne richiama altre, richiama contesti e ricordi, stati d’animo e stereotipi. Non esistono due parole uguali e non esistono due menti uguali.  

Ma se qualcuno continua a pensare che le parole non sono importanti allora viene da chiedersi perché non dire avvocata, ingegnera, architetta. Se non è importante allora perché non parlare in modo corretto coordinando il genere col soggetto? Se proprio non sono importanti le parole allora perché tutta questa resistenza?

Ludwig Wittgenstein, filosofo del linguaggio e della logica (e non solo) considerato uno dei massimi pensatori del secolo scorso,  ci ha insegnato che “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio pensiero”. Ovvero ciò che non nomino non esiste (o viene nascosto).

Ci sono ricerche scientifiche che dimostrano che la scelta delle parole influisce in modo diretto sull’esistenza di qualcosa per me e per il mio modello del mondo.

Di cosa abbiamo paura mettendo quella vocale? Cosa stiamo nascondendo?

Stiamo nascondendo un’alternativa all’unica storia che è stata raccontata finora, quella che il prestigio è cosa da maschi.

E perché allora sono proprio alcune donne ad aver bisogno di nominarsi professionalmente al maschile per sentirsi brave?

Perché non ci hanno insegnato che anche noi potevamo essere brave a lavoro. Ci è stato detto che il nostro ambito era quello familiare o se fuori casa comunque dedito alla cura e all’educazione, non eravamo portate per le scienze, per l’economia o per tutto il resto delle possibilità date, invece, a chi aveva il privilegio natale di essere maschio, il cui regno era quello del ruolo in società. A me non stupisce che alcune donne si sentano ancora così insicure da rinnegare il proprio genere. 

Il FATTO è che continuando così stanno rinnegando anche se stesse, e un po’ anche tutte le altre.

Perché è una guerra tra povere

Volere stipendi al pari di colleghi maschi è una battaglia che va portata avanti da tutte e tutti noi, ma perché dobbiamo scegliere una sola battaglia? Perché se combattiamo per i nostri stipendi non possiamo combattere anche per essere riconosciute nelle parole e nei ruoli sociali?
Perché dover scegliere quale diritto volere a scapito di altri?

Fin quando penseremo che ci sono diritti più importanti di altri e che possiamo combattere solo per uno alla volta allora sarà sempre una guerra tra poveri, anzi tra povere. 

I ricchi sanno che possono avere tutto insieme, noi no. Ci hanno abituato a non pretendere troppo e a fare una richiesta per volta, senza esagerare. Ma anche questa è una richiesta sola: parità. Solo che poi si devono seguire sentieri diversi per approdare alla parità su tutti i fronti. E allora perché invece di prendercela con chi non ci riconosce il giusto valore ce la prendiamo con chi combatte con noi nella stessa guerra, ma su un altro campo?

Sto usando non a caso la metafora della guerra, usando parole come battaglia, campo, armi, combattere. Questa è una guerra con un nemico forte e radicato, e come abbiamo visto talmente seduttivo da non farci accorgere, a volte, di stare ancora dalla sua parte. Ormai è radicato in noi e solo restando uniti e unite possiamo essere più consapevoli e scegliere su quali campi e con quali armi combattere, senza ferire i nostri alleati.

 

Un giro di lingua

Oltre a tutto questo c’è la questione della grammatica italiana. Pensate di essere una persona straniera che sta imparando l’italiano, non vi sembrerebbe un po’ assurdo vedere una donna che si presenta con una professione al maschile? Sarebbe interpretato come una persona transessuale, ma qui in Italia troppo spesso anche loro restano invisibili.

Pensa ancora se ti dicessi: “Ti presento mio zio donna” (sapendo che è eterosessuale). Magari la devi leggere più volte questa frase per capire che sto parlando di mia zia. Allora perché alcune parole vanno bene usate al femminile e altre no? E sono tutte parole che esistono in italiano. Stiamo combattendo una guerra che non ha senso grammaticale, perché il femminile va usato con le femmine, anche a lavoro. E lo sappiamo dalle elementari.

Una mia esperienza

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Ho scritto un libro

IL CORPO EMOTIVO NEL PUBLIC SPEAKING

Manuale pratico tra mente, cuore e storytelling

Il public speaking per me è molto di più del parlare in pubblico, perché ci fa fare i conti con noi, con le nostre paure, ma anche con i nostri sogni e le nostre speranze. È un guardarsi dentro prima che fuori, è un parlare con noi stess* prima che con le altre persone. È anche guardare in faccia cose che non ci piacciono, ed è anche imparare a conoscersi meglio e a dirsi: sono stata brava!

Dentro questo libro troverai una parte dedicata alle emozioni e a come tenerle per mano senza farti governare. C’è anche uno Speciale Ansia! Una parte è dedicata al linguaggio e a come si formano i pensieri nella nostra mente. Un’altra, a grande richiesta, è sulla comunicazione non verbale e in ultimo ci sono le mie tecniche preferite di storytelling. E tanti e tanti esercizi.

 

“È un libro che mette ordine tra falsi miti e prove scientifiche, adatto per organizzare discorsi sia preparati, sia improvvisati. Per chi vuole essere leader e muovere opinioni, per chi ha un sogno e vuole raggiungerlo, per chi vuole parlare con mille altre persone o una sola”.

Ne ho scritto un altro:

CHE PALLE ‘STI STEREOTIPI

25 modi di dire che ci hanno incasinato la vita

Le parole che usiamo non servono solo a descrivere la realtà ma influenzano inconsapevolmente anche i nostri pensieri e determinano quindi i nostri comportamenti. Occuparsi delle parole vuol dire soprattutto prendersi cura di sé e della propria mente. E non esistono cose più urgenti di dedicarci a noi e al rapporto con le altre persone. Questo viaggio ironico e al contempo molto serio ci porta, attraverso venticinque modi di dire che spesso usiamo inconsapevolmente, all’interno å una società ancora troppo maschilista, nella quale le donne troppo spesso mettono in atto comportamenti auto-sabotanti. Sono parole “di seconda mano”, che utilizziamo senza compiere una vera e consapevole scelta, sono parole non nostre ma che, nel momento in cui le pronunciamo, dicono tanto anche di noi, di chi siamo, di cosa (senza rifletterci) pensiamo e di come ci comportiamo. Grazie alle riflessioni di Nacci e Pettolino Valfrè, impariamo a riscrivere la nostra voce interiore, a disinnescare i nostri automatismi in modo che, quando staremo per esclamare a una donna: “Hai proprio le palle!”, ci verrà da ridere ripensando a cosa vuol dire, a quanto sia assurdo, e ci porterà a domandarci: “Sono veramente io che sto scegliendo questi termini?”, “Chi è la padrona o il padrone della mia mente?” e ancora: “Posso amare le parole che ho detto?”.

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