Psicologa | Giornalista | Docente Università | Scrittrice

La newsletter che parla di parole, pensieri e cervelli narrativi

di Marta Pettolino Valfrè

Cosa succede dentro di noi quando perdiamo qualcosa?

Frutta che rappresentano organi genitali maschili e femminili

Se ti dico “perdere” qual è la prima cosa che ti viene in mente? Che immagini hai quando pensi a questo verbo? E che sensazioni all’interno del tuo corpo ti arrivano?
Possiamo averne diverse, ma sicuramente quasi nessunə percepirà qualcosa di positivo. La perdita per noi è negativa. Poi a pensarci bene ogni tanto la perdita può essere anche positiva, ma ci dobbiamo pensare proprio bene per cambiare idea e sensazioni.
Tra le cose che hai pensato poco fa c’era forse “perdere la verginità?”
Questa riflessione mi è nata leggendo un post di Eugenia Nicolosi su Alfem.

Perché usiamo il verbo perdere, che ci richiama l’idea ma anche lo stato emotivo di quando ci capita qualcosa di negativo e la maggior parte delle volte non voluto?
Perdere la verginità è una frase che si usa soprattutto riferito al sesso femminile, si può dire anche relativa a quella maschile, ma non si può negare che c’è un gran discutere su quella femminile, indicata ancora troppo spesso come virtù da mantenere.

Ed ecco che si svela il perché la verginità è abbinata a quel verbo e non invece al guadagnare una diversa sessualità e consapevolezza, oppure al cambiamento, oppure all’esperienza. Mica si può fare sesso per piacere, deve essere negativo per noi donne e deve insegnare al nostro inconscio, appena impariamo ad usare quella stringa di codice, che perdiamo qualcosa di importante.

Perdere la verginità

Avversione alla perdita e propensione al guadagno

Da Cartesio in poi ci hanno educato a coltivare la nostra razionalità e la nostra mente analitica perché portatrice della nostra vera essenza e del nostro essere evoluto. E così ci siamo dimenticati del nostro corpo e del nostro essere animale.

Molte persone si descrivono come razionali e capaci di non farsi influenzare delle emozioni quando prendono decisioni. Per credere a questo dovremmo anche credere che la mente senza emozioni ha sempre ragione e che queste ci distraggono da ciò che è giusto per noi.
Per nostra fortuna sono arrivati Kahneman e Tversky che, con i loro studi, ci hanno mostrato che non siamo per nulla razionali quando pensiamo e quando prendiamo decisioni.

Proprio questi studi e la spiegazione degli errori sistematici nel processo decisionale umano hanno portato lo psicologo Daniel Kahneman a vincere il premio Nobel in economia.
Le persone non valutano le opzioni solo in base al loro valore atteso in termini di utilità, ma sono influenzate anche da come tali opzioni sono presentate, da quali parole vengono usate per descrivere le scelte e dalla loro percezione di guadagni e perdite potenziali.

Si è scoperto che le persone tendono a essere più motivate a evitare le perdite invece che a perseguire guadagni. In altre parole, la sensazione di perdere qualcosa è spesso percepita come più dolorosa e significativa rispetto alla gioia di guadagnare la stessa quantità.

Applica questo alla verginità: la perdita ha più importanza del guadagno, ma allora perché usare questa parola associata alla verginità? “Perderla”, se voluta, porta a cose belle, a una maggiore consapevolezza corporea, di sé e dell’altra persona, porta alla scoperta di una sessualità diversa da quella praticata fino a quel momento.

Kahneman e Tversky hanno esplorato l’avversione alla perdita attraverso numerosi esperimenti e studi, dimostrando che le persone sono disposte a rischiare di più per evitare perdite rispetto a quanto sarebbero disposte a rischiare per ottenere guadagni di valore simile. Questa comprensione ha profonde implicazioni nel campo dell’economia comportamentale e nella teoria delle decisioni, portando a una maggiore consapevolezza dei modi in cui le emozioni influenzano i processi decisionali umani.

L’evoluzione ci spiega il perché l’avversione alla perdita è così importante per noi. Quando eravamo nelle savane ed eravamo ancora primitive e primitivi, dovevamo salvarci la pelle tutti i giorni, procurarci il cibo e difenderci da altre specie animali che condividevano i nostri spazi. Allora ogni cambiamento era un potenziale pericolo. Un rumore, la presenza di un animale, un agente atmosferico portava con sé un cambiamento che poteva determinare se eravamo in pericolo oppure no. Per questo motivo abbiamo una mente e un orecchio che assimilano anche per differenza e per questo motivo tutte e tutti abbiamo l’avversione al cambiamento, con sfumature diverse e personali. Il mantenimento dello status quo ci sembra più confortevole perché apparentemente controllabile.

Nella maggior parte dei casi funzioniamo bene, ma non dobbiamo dimenticarci che la variazione può portarci al successo e al guadagno, qualsiasi sia il nostro personalissimo significato di queste due parole.

E allora la corsa a chi guadagna di più che fine fa?

D’altra parte, la propensione al guadagno riflette la nostra inclinazione a cercare opportunità di crescita, nuove esperienze o cambiamenti positivi. Coloro con una forte propensione al guadagno possono essere più propensi a cercare occasioni di sviluppo personale o professionale, anche se implicano rischi.
Questo può avere effetti su tutta la nostra vita: nelle relazioni, nella carriera e anche alla nostra crescita personale.
Sapere che tuttə noi abbiamo funzionamenti simili, ma con sfumature diverse ci può aiutare a migliorare il nostro dialogo interiore e a riconoscere le nostre tendenze verso l’avversione alla perdita e la propensione al guadagno e può aiutarci a prendere decisioni più coscienti.
Riflettere su come le emozioni influenzano le nostre vite può essere il primo passo per un miglioramento più consapevole nella relazione con noi stessə e con le altre persone.

Cambiamo il quadro

In quale altro modo potremmo descrivere un cambiamento così importante come la perdita della verginità?
Quello che stiamo facendo, come forse già sai se leggi da tempo questa newsletter, si chiama reframing, cioè cambiamo la cornice del quadro. Nel mio libro Il corpo emotivo nel public speaking spiego nel dettaglio come fare un buon re-incorniciamento e quali tecniche abbiamo a disposizione.

Oggi voglio giocare un po’ con i contrari: se non perdo qualcosa allora guadagno. Cosa posso guadagnare quando ho il primo rapporto sessuale penetrativo?
Posso guadagnare una nuova maturità sessuale oppure posso diventare incasta (cioè fuori casta, che è sinonimo di libertà). Secondo te come si potrebbe sottolineare a parole che è una cosa bella (se successa con consenso) e non è una perdita?
Scrivimi, se ti va, le espressioni che ti piacerebbero sostituissero questo brutto modo di dire.

Un giro di lingua

Perdere deriva dal latino perdĕre ed è composto da per– e dare «dare». Cioè, si perde qualcosa quando la si dà a qualcuno. Torniamo alla sessualità: le donne e il loro senso di agentività funzionano solo in relazione all’uomo.

Lo so che si può dire anche di un uomo che ha perso la verginità, ma solitamente sui maschi si usa di più una locuzione diversa, dove l’agente ha un ruolo attivo, tipo: “ho sco***o!”. Oppure se si attribuisce a un uomo la verginità lo si fa quasi fosse un problema. Altro doppio standard molto pericoloso.

Anche per questo motivo sarebbe giusto cambiare questo modo di dire, perché la verginità non la si dà a nessuno, perché non è una cosa da custodire e che si passa da una persona all’altra. È una cosa da mantenere se si vuole o da cambiare se la scelta personale è questa.

Una mia esperienza

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Ho scritto un libro

IL CORPO EMOTIVO NEL PUBLIC SPEAKING

Manuale pratico tra mente, cuore e storytelling

Il public speaking per me è molto di più del parlare in pubblico, perché ci fa fare i conti con noi, con le nostre paure, ma anche con i nostri sogni e le nostre speranze. È un guardarsi dentro prima che fuori, è un parlare con noi stess* prima che con le altre persone. È anche guardare in faccia cose che non ci piacciono, ed è anche imparare a conoscersi meglio e a dirsi: sono stata brava!

Dentro questo libro troverai una parte dedicata alle emozioni e a come tenerle per mano senza farti governare. C’è anche uno Speciale Ansia! Una parte è dedicata al linguaggio e a come si formano i pensieri nella nostra mente. Un’altra, a grande richiesta, è sulla comunicazione non verbale e in ultimo ci sono le mie tecniche preferite di storytelling. E tanti e tanti esercizi.

 

“È un libro che mette ordine tra falsi miti e prove scientifiche, adatto per organizzare discorsi sia preparati, sia improvvisati. Per chi vuole essere leader e muovere opinioni, per chi ha un sogno e vuole raggiungerlo, per chi vuole parlare con mille altre persone o una sola”.

Ne ho scritto un altro:

CHE PALLE ‘STI STEREOTIPI

25 modi di dire che ci hanno incasinato la vita

Le parole che usiamo non servono solo a descrivere la realtà ma influenzano inconsapevolmente anche i nostri pensieri e determinano quindi i nostri comportamenti. Occuparsi delle parole vuol dire soprattutto prendersi cura di sé e della propria mente. E non esistono cose più urgenti di dedicarci a noi e al rapporto con le altre persone. Questo viaggio ironico e al contempo molto serio ci porta, attraverso venticinque modi di dire che spesso usiamo inconsapevolmente, all’interno å una società ancora troppo maschilista, nella quale le donne troppo spesso mettono in atto comportamenti auto-sabotanti. Sono parole “di seconda mano”, che utilizziamo senza compiere una vera e consapevole scelta, sono parole non nostre ma che, nel momento in cui le pronunciamo, dicono tanto anche di noi, di chi siamo, di cosa (senza rifletterci) pensiamo e di come ci comportiamo. Grazie alle riflessioni di Nacci e Pettolino Valfrè, impariamo a riscrivere la nostra voce interiore, a disinnescare i nostri automatismi in modo che, quando staremo per esclamare a una donna: “Hai proprio le palle!”, ci verrà da ridere ripensando a cosa vuol dire, a quanto sia assurdo, e ci porterà a domandarci: “Sono veramente io che sto scegliendo questi termini?”, “Chi è la padrona o il padrone della mia mente?” e ancora: “Posso amare le parole che ho detto?”.

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