Psicologa | Giornalista | Docente Università | Scrittrice

La newsletter che parla di parole, pensieri e cervelli narrativi

di Marta Pettolino Valfrè

Se me lo avessero detto prima…

Ageismo

Ho visto un’intervista di Fiorella Mannoia che faceva così: “Se mi avessero detto prima che saremmo arrivati a vedere il mondo così’ com’è non ci avrei creduto (…) In Europa c’è una guerra, in Medio Oriente ce n’è un’altra, in giro per il mondo, come dice il Papa, c’è una Terza Guerra Mondiale a pezzetti, popoli che emigrano e altri popoli che non li vogliono, muri che si alzano, gente alle frontiere… io che ho vissuto quella meravigliosa epoca degli anni ’70 pensavamo che il mondo sarebbe andato a migliorare e invece si rimettono in discussione i diritti acquisiti… insomma, se me l’avessero detto prima io non ci avrei creduto“.
Io sono nata negli anni Settanta e anche se ero molto piccola per portare a oggi dei ricordi nitidi, neppure io ci avrei creduto.
Un po’ di tempo fa ho fatto un’esperienza insolita che mi ha turbata e oggi mi capita spesso di ripensarci e di realizzare che non è stata solo un’esperienza personale, ma che ha implicazioni sociali ben radicate. Ho preso una seconda laurea dopo circa vent’anni dalla prima e l’ho presa in un’università che non è quella dove insegno per essere una studentessa “normale”, ecco cosa ho imparato.

Non è un Paese per giovani

non è un paese per vecchi né per giovani

Passiamo il tempo a idolatrare chi esce dagli schemi, lo slogan preferito delle agenzie e delle aziende (non tanto innovative, a dirla tutta) è Think outside the box. Ma quand’è che usciamo dagli schemi se siamo pronti a giudicare tutto quello che ci capita sotto gli occhi?
Insegno all’università da molti anni e quello che mi è successo, seppur portatore di delusione e dolore, lo consiglio a tutte le persone che insegnano, e forse non solo a quelle.
Per anni ho visto solo dal mio punto di vista e da quella della mia bolla sociale, ovvero delle persone che erano simili a me per ruolo e per esperienza. E quindi lamentavo le cose che lamentano le prof.: tesi copiate, non argomentate, scadenze non rispettate, ecc. (tutto vero) ed ero felice per le cose che rendono felici le prof.: tesi ben scritte, esami emozionanti, mail inaspettate (tutto vero). Ed ero sicura che le università, con marginali differenze, funzionassero grosso modo così.

Poi mi sono iscritta di nuovo all’univesità, volevo farlo in incognita, senza dire chi ero e il ruolo sociale raggiunto, lontano da casa e da chi mi conosceva. Lì è cambiato il mio punto di vista: mail senza risposta, atteggiamento di superiorità dalla segreteria ad alcuni professori (non tutti per fortuna) e quella formalità aggressiva che ti fa capire subito qual è il tuo posto. E io non ero abituata: ero nel gruppo dei forti e dei vincenti, quello era il mio posto ormai da tanto tempo.

Questo atteggiamento visto da fuori mi ha ferito e mi ha fatto passare qualche notte insonne. Erano tornate le ansie di quella ragazza di vent’anni prima? No, la differenza era che io adesso sapevo riconoscere quell’atteggiamento “adulto”.

Quando ho iniziato un nuovo percorso di studi in psicoterapia stessa cosa. È stato il proseguimento di quella modalità relazionale: dalla segreteria ad alcuni docenti. La cosa strana è che ai miei compagni e compagne dei diversi viaggi nella maggior parte delle volte non balzava all’occhio il modo in cui eravamo trattati e il senso di superiorità di alcuni atteggiamenti che ci spingevano a considerarci sempre e comune giovani. Ma in fondo, se tutti ti trattano come non alla pari, finisci per credere di non esserlo.
Ma qual è la cosa davvero strana che ho vissuto?

L’uomo Rango

Uomo rango

Cosa vuol dire considerarci giovani? Vuol dire far notare la superiorità di esperienza non in senso costruttivo, ma in quello paternalistico, dimenticando però che stare per troppo tempo in un ambiente ci rende ciechi e cieche, come lo ero io prima (e come lo sarò ancora in altre bolle) e che una persona con esperienze diverse ci può portare energia e punti di vista insoliti.

Ci dimentichiamo troppo spesso la mente del principiante e attribuiamo alle altre persone la nostra storia individuale. Se noi non eravamo intraprendenti a 25 anni, non è detto che la persona che si ha davanti sia come eravamo noi, e non è neppure detto che tutti i 25enni siano uguali o che abbiano grandi similitudini.

È sempre la stessa storia: una questione di potere e di rango. E il rango ha senso solo in relazione ad altre persone, che stanno sotto o sopra. Senza le altre persone, caro Uomo Rango, non sei più tu. E allora chi sei?

Non c’è per forza cattiveria o negatività nel rango e nell’avere potere, c’è quando smettiamo di vedere e di ascoltare, convinti di sapere già chi abbiamo di fronte. E dobbiamo distinguere il bisogno di riconoscimento sociale, che è legittimo, dall’altezzosità che spesso nasconde una grande insicurezza.

Chi ha più anni penserà sempre che la propria generazione era migliore e che i giovani non hanno più voglia di far nulla, e pure questi giovani quando non lo saranno più ripagheranno con la stessa medaglia le nuove generazioni. E i giovani penseranno che se non trovano lavoro è perché i vecchi non vanno in pensione (spoiler: non è così) e che siamo noiosi e pure un po’ rallentati di testa. Va bene, basta sapere che funzioniamo così, senza attribuire alle altre persone (o categorie) la responsabilità dei nostri pensieri.

Neppure i vecchi vanno bene neh

Ageismo

E poi però succede che quando svelo di avere 47 anni la gente mi risponda:

  • ma dai, che sei ancora giovane;
  • complimenti, non li dimostri per niente;
  • l’importante poi è essere giovani dentro.

Allora non ho capito, essere giovane va bene o no?
Cosa nasconde la giovinezza di così bello, se poi le giovani generazioni non sono rispettate proprio per l’età? O meglio: cosa vogliamo non vedere della vecchiaia? E perché d’improvviso è una cosa da nascondere e da complimentarci quando non si vede (soprattutto nelle donne)?

La scorsa settimana parlando con una collega psicologa un po’ più giovane ho detto in modo spontaneo e senza rifletterci tanto che se avessi la bacchetta magica io non sposterei di un solo anno la mia età e che non vedo l’ora di viverli i 50 anni. Ed è vero: oggi ho una libertà che in età giovanile non avevo, ho meno paure e anche qualche ferita in più, ferite però che mi hanno dato strumenti nuovi.

Non voglio essere giovane dentro, perché non so cosa significhi, perché non so in che modo la sola età possa contribuire a variare il mio coraggio, la mia spensieratezza e i miei sogni.
Non voglio essere giovane dentro perché significherebbe non rispettare la mia vita e il mio passato.
Non voglio essere giovane dentro perché da giovane dovevo impostare tutta la mia vita, con ansie e angosce annesse. Avevo tante incertezze su cosa scegliere o su chi essere. Oggi ho capito che tutte queste risposte possono anche cambiare.

Anche io mi devo sforzare ogni tanto per non tirare fuori il mio vestito da “Uomo Rango” (sì, qui è uomo perché il patriarcato ci mette sempre lo zampino sui nostri maggiori stereotipi), ma sapere che potrebbe succedere mi porta a riflettere sulle mie parole e sui miei comportamenti.

‘Sta sciocchezza dei Millennial

Perché sentiamo l’esigenza di etichettarci e divederci in generazioni? Il rischio che corriamo, secondo me, è quello di finire col credere che siamo tanto diversi e che non ci possiamo ascoltare, capire e contaminare. A me piace pensare che dovremmo trovare il gusto delle somiglianze e imparare dalle differenze, senza questa sciocchezza di dividerci per anno di nascita.

Alle scuole medie o nei primi anni di superiori un anno di differenza sembrava tantissimo e se ci capitava di prenderci una cotta per “uno che stava al quinto” sapevamo già che non potevamo sperare neppure un saluto, perché “lui è grande”. Adesso però siamo cresciutə da quei pensieri, non portiamoli con noi sotto mentite spoglie.

Un giro di lingua

Ci hai mai pensato che diciamo giovani e vecchi, ma entrambe le etichette richiedono un termine di paragone? Giovane e vecchi rispetto a chi? Qual è l’età che funge da metro di giudizio per tutte le altre? E chi è il modello che prendiamo come metro per misurare tutto il resto? Mi sa che lo sai già se leggi da tempo questa newsletter: maschio, etero e mezza età, cioè chi è all’apice della produttività. Lui è il punto dal quale parte tutto il resto e dal quale tutto si misura: tutto il resto esiste solo in rapporto a lui.

Possiamo leggere varie definizioni di rango ma, nel contesto inteso qui, hanno tutte questi elementi in comune: gerarchia di valori, posizione sociale, posto che si occupa, condizione e ceto sociale e notevoli qualità.

Non sembra anche a voi che si mischino un po’ le cose? Ceto sociale con qualità, valori e posizioni, condizioni e gerarchie. Viene abbastanza naturale che la maggior parte delle persone occuperà posizioni sociali di prestigio, se non per nascita, in età avanzata, anche perché entrare o ri-entrare in una sfera lavorativa è sempre più difficile e questo non riguarda solo i giovani, ma l’intera società.

E poi non c’è scritto, ma come mai viene suggestionata solo la sfera lavorativa e il prestigio? Limiti di una mente cresciuta nell’era della produttività e della performance, che ci sussurra che il nostro successo si misura in relazione alla nostra visibilità e al nostro prestigio nella casta produttiva.

Una mia esperienza

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Ho scritto un libro

IL CORPO EMOTIVO NEL PUBLIC SPEAKING

Manuale pratico tra mente, cuore e storytelling

Il public speaking per me è molto di più del parlare in pubblico, perché ci fa fare i conti con noi, con le nostre paure, ma anche con i nostri sogni e le nostre speranze. È un guardarsi dentro prima che fuori, è un parlare con noi stess* prima che con le altre persone. È anche guardare in faccia cose che non ci piacciono, ed è anche imparare a conoscersi meglio e a dirsi: sono stata brava!

Dentro questo libro troverai una parte dedicata alle emozioni e a come tenerle per mano senza farti governare. C’è anche uno Speciale Ansia! Una parte è dedicata al linguaggio e a come si formano i pensieri nella nostra mente. Un’altra, a grande richiesta, è sulla comunicazione non verbale e in ultimo ci sono le mie tecniche preferite di storytelling. E tanti e tanti esercizi.

 

“È un libro che mette ordine tra falsi miti e prove scientifiche, adatto per organizzare discorsi sia preparati, sia improvvisati. Per chi vuole essere leader e muovere opinioni, per chi ha un sogno e vuole raggiungerlo, per chi vuole parlare con mille altre persone o una sola”.

Ne ho scritto un altro:

CHE PALLE ‘STI STEREOTIPI

25 modi di dire che ci hanno incasinato la vita

Le parole che usiamo non servono solo a descrivere la realtà ma influenzano inconsapevolmente anche i nostri pensieri e determinano quindi i nostri comportamenti. Occuparsi delle parole vuol dire soprattutto prendersi cura di sé e della propria mente. E non esistono cose più urgenti di dedicarci a noi e al rapporto con le altre persone. Questo viaggio ironico e al contempo molto serio ci porta, attraverso venticinque modi di dire che spesso usiamo inconsapevolmente, all’interno å una società ancora troppo maschilista, nella quale le donne troppo spesso mettono in atto comportamenti auto-sabotanti. Sono parole “di seconda mano”, che utilizziamo senza compiere una vera e consapevole scelta, sono parole non nostre ma che, nel momento in cui le pronunciamo, dicono tanto anche di noi, di chi siamo, di cosa (senza rifletterci) pensiamo e di come ci comportiamo. Grazie alle riflessioni di Nacci e Pettolino Valfrè, impariamo a riscrivere la nostra voce interiore, a disinnescare i nostri automatismi in modo che, quando staremo per esclamare a una donna: “Hai proprio le palle!”, ci verrà da ridere ripensando a cosa vuol dire, a quanto sia assurdo, e ci porterà a domandarci: “Sono veramente io che sto scegliendo questi termini?”, “Chi è la padrona o il padrone della mia mente?” e ancora: “Posso amare le parole che ho detto?”.

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